Le alchimie del silenzio: io, tu, l’incontro – Riccardo Nardo

M Nardo

Le alchimie del silenzio: io, tu, l’incontro. Tra Merleau-Ponty e lo zen

Si narra nello Shōbōgenzō che il Buddha trasmise l’illuminazione a Mahākāśyapa senza parola alcuna. In silenzio, tra molti discepoli, Mahākāśyapa vide roteare un fiore tra le dita di Shakyamuni, fu l’unico a cogliere il suo sorriso, e d’un tratto tutto fu chiaro. Da cuore a cuore dicono i buddhisti, senza il medium apofantico della parola con buona pace del logos occidentale: a volte non serve altro per entrare in intimità con il mondo, con se stessi, con l’altro. O meglio, forse a volte serve altro dal logos, altro dalla chiacchiera, dalla frenesia e dal chiasso del mondo in cui viviamo e in cui inciampiamo sull’altro, più che comprenderlo. Il silenzio è d’oro, come direbbe Nishitani, e lo zen è l’alchimia che trasforma in oro tutte le cose – attraverso un rinnovamento est/etico della prassi che purifica e monda il sé da tutti gli orpelli circostanziali, dilatandone un nuovo campo di possibilità grazie alla scoperta della sua vacuità. Al di là di ciò che la parola può circoscrivere, oltre il riverbero di fondo che essa genera anche nell’intimo dei nostri flussi di coscienza, ci aspetta l’inattesa riscoperta del quotidiano, la sua trasvalutazione, o per rimanere nel felice gioco metaforico di Nishitani, la sua trasmutazione. È un’antica saggezza quella dello zen che oggi come oggi ha molto da insegnarci. Così tanto che non poteva non essere fagocitata in quella grande fuga a oriente che è diventata una certa spiritualità occidentale, a volte spaesata nei suoi stessi punti di riferimento, colta da esotismi che funzionano come fughe o rimpiazzi laddove uno stillicidio del senso sembra esaurire le risorse e le trascendenze a cui eravamo abituati. Diventa mindfulness, si spoglia della sua accezione “religiosa”, fino a poter diventare rifugio privato, panacea dello spirito. Fortunatamente qualsivoglia immaginario creato non esaurisce la portata simbolica e dialogica dell’incontro con lo zen e la cultura giapponese. Esso, tuttavia, rimane possibile solo dal momento in cui iniziamo ad andare oltre le facili appropriazioni e comparazioni tra culture diverse secondo qualunque metodo che ci illuda di poterci considerare sopra le parti. Altresì, nel momento in cui volessimo davvero dialogare (con l’altro o con un’altra cultura) non potremmo mai irretirci su una presa di posizione stentorea e inamovibile, con la sicurezza di poter inglobare la posizione altrui all’interno di un orizzonte dialettico che subordina l’altro a un’operazione di superamento e prevaricazione. È un fragile equilibrio sul filo di lana in cui non possiamo permetterci di arroccarci nelle nostre certezze, nelle nostre pretese identitarie, né, allo stesso tempo, si tratta di ipostatizzare un immaginario esotista. L’invito di Panikkar al dialogo dialogale, oltre lo spettro del dialettico, sembra essere la giusta frequenza su cui sintonizzarci per andare oltre il mero scambio delle conoscenze, oltre i settarismi che ci relegano entro la facile stilizzazione dell’altro, impedendoci mutualmente di de-coincidere da noi stessi, dalle nostre pretese identitarie ed egologiche. Affinché vi sia davvero dialogo – interreligioso, interculturale o interpersonale – abbiamo bisogno di fecondarci reciprocamente, di smantellare e decostruire queste pretese, creando uno spazio d’ascolto. È a quest’altezza che il silenzio diventa relazione, locus dell’ascolto autentico dell’altro, vuoto relazionale entro cui esso può apparire senza esaurirsi asfitticamente.

È da secoli che lo zen insegna proprio ad andare oltre l’inautenticità del velo di polvere entro cui solitamente ci abbandoniamo alla chiacchiera, ai giudizi parziali per rivolgere la nostra attenzione a ciò che si dà oltre la parola, oltre la barricata del nostro ego, per scoprire nella Grande Morte dell’io, un tipo di silenzio (moku 黙想) come spazio di deiscenza reciproca del vero sé e del mondo, di un “infinito Aperto” direbbe Ueda. Il silenzio mistico dello zen, dice più di qualsiasi parola, e consente – nella sua potenza alchemica – di inverare e rinnovare il proferimento stesso, donandoci la possibilità di ascoltare e lasciare che il luogo, il frammezzo in cui s’ingenera l’incontro, si dischiuda. Questo tipo di silenzio è da distinguere, secondo Ueda (S. Ueda, Silence and words in zen buddhism), da altri due termini: damaru (黙る) e chin-moku (沈黙) che rispettivamente indicano lo starsene zitti in una situazione quotidiana e l’“affondare nel silenzio”, ovvero il silenzio di chi è immerso in una profonda riflessione in cui però il silenzio dello zen è ancora un lieve sentore. Entrambi questi tipi di silenzio appartengono alla dimensione del linguaggio, nelle sue volute analitiche, ma anche nella sua superficialità più triviale, la chiacchiera heideggeriana in cui ogni giorno siamo immersi. Il silenzio su cui insiste Ueda invece, che abbiamo definito mistico, risponde a una risonanza diversa in grado di trasvalutare radicalmente la dimensione del linguaggio e di farci riscoprire il mondo stesso non più come insieme di oggetti accatastati contrapposti ad un soggetto sostanziale, ma nella reciproca relazionalità da cui scaturisce il suo senso più profondo, ma anche sfuggente. È proprio in quest’ottica che alcune ramificazioni della scuola di Kyoto hanno elaborato un particolare approccio “fenomenologico” per descrivere l’evento dell’altro. Infatti, Ueda propone una vera e propria fenomenologia del sé senza sé come proposta teoretica superando per certi versi, alcuni delle impasse che contraddistinguono la caratterizzazione del soggetto monadologico, sostanziale e solipsistico da Cartesio fino a Husserl; d’altro canto, Ueda, riprendendo Buber ma distanziandosi dalla sua posizione, crede che lo zen offra un nuovo modo di intendere il rapporto io-tu. Infatti, se per quest’ultimo l’unico modo in cui si può incrinare l’unilateralità dell’io in grado di reificare il tu, è l’incontro perturbante con il Tu eterno (ovvero la trascendenza divina), per Ueda invece il modo per superare l’egocentrismo è dare la giusta rilevanza al frammezzo (ma, 間) come spazio di assoluta relatività tra due persone oltre l’intossicamento dell’identificazione.

È solo nel momento in cui l’io e il tu diventano assolutamente relativi, come ci ricorda Nishitani (dunque relazionali) che ogni possibile discorso (sia anche il più banale incontro in un mercato, come suggerisce l’ultimo dipinto delle Dieci icone del bue di Shūbun) scopre alle sue spalle la differenza ontologica che lo vivifica. Non si tratta assolutamente, una volta constata l’apertura del soggetto, di un’indifferenza delle cose, una notte in cui tutte le vacche sono nere, slegata dalla realtà, bensì del concreto porsi dell’io e del tu come reciprocamente abitabili l’uno dall’altro in quanto consapevoli della vacuità delle loro pretese egocentriche ed egoistiche, come nell’aneddoto dell’incontro tra Sanshō e Kyōzan: “Il fatto che Sanshō chiami se stesso con il nome di Kyōzan vuol dire allora che egli svuota se stesso e mette Kyōzan al proprio posto. Dove l’altro è al centro del sé e dove l’esistenza di cisacuno è allocentrica regna l’assoluta armonia. Questa potrebbe essere chiamata “amore” nel senso religioso del termine. Sottolineo “nel senso religioso”, poiché è una condizione di vacuità o muga (non-ego) che ha assolutamente separato il sé e l’altro dal loro senso ordinario” (K. Nishitani, La relazione Io-Tu nel buddhismo zen).

Allo stesso modo, seppur partendo da presupposti linguistici differenti, come ci ricorda l’ultimo Merleau-Ponty, se dovessimo davvero rendere giustizia al nostro proferire, dovremmo sforzarci di uscire dalla facile rappresentazione di un modello di significazione strumentale, per cogliere il vero aspetto operativo e processuale della parola: “[…] dobbiamo considerare la parola prima ancora che venga pronunciata, sullo sfondo del silenzio che la precede, che non cessa di accompagnarla e senza il quale essa non direbbe nulla; di più, dobbiamo essere sensibili a quei fili di silenzio di cui il tessuto della parola è intramato” (M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo). Come per Merleau-Ponty per comprendere l’operazione originale del linguaggio dobbiamo fingere di non aver mai parlato e sovvertire la nostra quotidianità irriflessa attraverso una riduzione, così anche lo zen, opera ai margini del linguaggio (attraverso i kōan e gli aneddoti paradossali come quello citato da Nishitani) per far emergere la prestazione sottesa a ogni proferimento, in modo da sciogliere i dualismi che ci impediscono di realizzare come ogni parola sia strutturalmente (differenzialmente per Merleau-Ponty, con il richiamo alla linguistica saussuriana) a ogni altra, nello stesso modo in cui il reale si presenta alla nostra percezione in un sistema di profondità e prossimità. Ecco che l’incontro con l’altro può davvero definirsi come tale solo a partire da questa relazionalità dell’io e del tu, di identità e differenza, di figura e sfondo, di parola e silenzio inteso come la nigredo della nostra operazione alchemica, ovvero il ritorno della materia al suo stato liminale, nella forgia della chōra, nelle volute della carne del mondo in cui ci co-apparteniamo, prima che il linguaggio faccia l’essere e il non-essere. Il silenzio circonda e avvolge il linguaggio, è il diaframma e la membrana impalpabile delle cose così-come-sono nel loro scorrere innocente.

D’altra parte, questa sua prospettiva ontologica ha un riflesso epistemico, giacché attraverso la rottura dell’io, il dialogo muta i suoi connotati, la sua portata cognitiva si converte in valenza etica ed esistenziale per chi, donando la sua attenzione scopre l’altro sotto una nuova luce. Lo stesso Merleau-Ponty ci viene incontro in maniera felice, per quanto concerne questa riflessione, quando ci invita a considerare il silenzio come autentica soglia da attraversare per capire il potere autentico della parola, del dialogo con l’altro. Egli si manifesta nei suoi e nei nostri reciproci silenzi, specchiandosi, rendendosi presente in maniera indiretta, obliqua, per rivelarsi in un baluginio di luci e ombre in cui scopriamo che noi siamo l’altro e che l’altro è in noi. La parola dialogica allora è quella che rinuncia a carpire l’altro, ma ne rilancia invece la vitalità nell’incontro, in cui l’immagine che io creo di te, e che tu crei di me, non appassiscono nell’autoreferenzialità dell’ego, ma vengono fortunatamente destituite dal loro centro, per aprirsi su un altrove inesplorato. Ognuno di noi, come ogni cultura del resto, porta con sé il peso di infiniti silenzi mai esplorati dall’incunearsi di una certa tradizione lungo un’unica traiettoria, e l’occasione di una filosofia interculturale si disvela in questo spazio fecondo in cui l’incontro riscopre la sua dimensione originaria, in cui si può palpare l’evento dell’altro, restituendone la complessità. Parola parlata e parola parlante acquisiscono sia nello zen sia in una certa prospettiva filosofica, la loro vera potenzialità attraverso l’interdipendenza dal silenzio, come spazio e metafora de-opacizzante dell’altro, demolendo le impalcature del sé per scoprirsi nelle differenze, nelle pluralità, nelle miriadi di sfaccettature del gioiello di Indra in cui ci muoviamo e ci troviamo a vivere.

Riccardo Nardo, Maggio 2022